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5 luglio 2019

Piccolo diario per Giacometti - 3

PICCOLO DIARIO PER GIACOMETTI - 3
di Marco Goldin

Una giornata di quelle che non si dimenticano facilmente nella vita. Che non si vogliono e non si possono dimenticare. Oggi. In Val Bregaglia. Ho trovato una panchina sotto l'ombra di un grande tiglio e scrivo. Sono alto sopra il ponte che in un giorno d'estate del 1907 Giovanni Giacometti dipinse in pieno sole, con il giallo della vita. Vedo da qui quel ponte, davanti al quale Alberto Giacometti un pomeriggio che era a Stampa si fece fotografare, mentre stava per imboccare la breve salita che lo avrebbe portato lì dove c'è una scuola progettata dal fratello Bruno, sotto il Piz Duan. Bisognerebbe venirci oggi per capire quali siano la meraviglia e l'incanto. Scrivo anch'io adesso sotto il Piz Duan e ho davanti le cime che stamattina mi hanno condotto giù dal passo del Maloja, dove mi ero fermato a dormire accanto all'atelier di Segantini. E da qui vedo tutto il piccolo villaggio di Stampa, dove Alberto è cresciuto nella casa di famiglia, eccola lì. È cresciuto assieme al papà Giovanni, alla mamma Annetta, ai fratelli Diego e Ottilia e Bruno. Era felice di quella vita tra le mura di pietra e legno della sua casa. E giusto davanti lo studio, che divise da un certo momento in avanti con il padre. Eccolo lì, lo studio.

Si scende da Maloja e dopo Casaccia si arriva a Borgonovo, dove Alberto Giacometti era nato al principio d'autunno 1901. Sulla sinistra la piccola chiesa di San Giorgio. Ti guardi attorno, in questa giornata perfetta di cielo azzurro che da nessuna parte si squama e soltanto si flette in una bambagia bianca di nuvole che vanno e vengono e fanno da corona ai picchi che conservano ancora, in alto, il bianco della neve. Ma sotto è tutto un fiorire di verdi diversi e fienagioni e erba tagliata e camomilla che si spande nell'aria. Ti fermi, ti guardi attorno e non sapresti trovare altra bellezza se non questa che qui oggi avviene. E si ricorda subito il motivo per cui la prima sosta è a San Giorgio, la chiesa riformata della Val Bregaglia. È a motivo di un piccolo cimitero che custodisce dietro il suo muro bianco poche sepolture. E sopra di esse, come uno splendore che riluce e si spande, tutto insieme, il Piz Duan, l'azzurro del cielo e il verde dei boschi e dei prati che precipitano.

Il cancello di ferro è accostato, la porta della chiesa è socchiusa. Una bianca navata e chiare panche di legno. Davanti, un messale posato e aperto sul Libro dei Salmi.  Fuori il cimitero è come il mondo e leggo i nomi di chi era venuto ed è poi andato. Ogni tanto alzo gli occhi, per incontrare le montagne che tutto proteggono e sono un dono. La tomba di Alberto Giacometti è a terra, la terra della Val Bregaglia. Proprio ieri sera, mentre al Maloja giungeva il buio, ho guardato delle vecchie foto, quelle del funerale di Alberto. Neve attorno, una lunga scia di persone vestite di nero, mentre la bara veniva adagiata nella fossa e una cugina buttava l'ultimo fiore. La tomba di Alberto Giacometti ha una piastra di ferro disegnata dal fratello Diego. Semplice, come la pagina di un libro che si stia per girare. E sopra solo il suo nome, le date della nascita e della morte e un titolo: pittore e scultore. L'adorata mamma Annetta è lì accanto, nella stessa tomba del padre Giovanni e del fratello Bruno e della moglie di lui, Odette. La tomba è un sasso del torrente Maira, levigato dal tempo e dalle correnti. Alberto lo ha scelto, come fosse un menhir, e gli ha aggiunto una colomba che beve. Li ho visti uno accanto all'altro, e Diego e Ottilia, la sorella morta di parto nel giorno del compleanno di Alberto, dietro di loro.

Tu pensi sia triste, invece i morti ci parlano e sono con noi. Sono presenza delle immagini e dello spirito. Così mentre continuo a scrivere queste note seguito a guardare il ponte. Alberto del ponte, lo chiamavano qui a Stampa, per distinguerlo dagli altri Giacometti. Ho in mente quella fotografia. Allora lascio la strada che si stacca accanto al ponte e salgo verso i prati su cui stanno i vecchi fienili scuri. Bellissimi. La montagna in alto domina tutto, la senti respirare e allora capisci perché Giovanni e Alberto parlassero sempre del Piz Duan. Lì in alto, oltre i tremila metri di quota, si forma lo spirito di questa valle. È il tempo della prima fienagione. Anche Alberto Giacometti, da ragazzo, aiutava i contadini a falciare l'erba. E ogni tanto si fermava a contemplare le montagne, con il rastrello in mano. Osservava un punto per volta, una cosa per volta, perché l'idea del panorama non faceva per lui.

Poi scendo verso la strada del Maloja, verso il centro di Stampa. Una volta qui c'era l'albergo Piz Duan e ancora oggi c'è la bella casa del Cinquecento che l'accoglieva e Alberto da ragazzo veniva a conversare di politica con gli ospiti. E poi dietro, lungo il fiume Maira, c'è il piccolo cancello di legno che lascia accedere al giardino. Fu qui che Giacometti nel 1952 volle dipingere il quadro che vedete oggi pubblicato in questo post. Il cancello, il giardino, la sua casa sulla destra al di là della strada. Con quella sua pittura fatta di trasalimenti muti e vertigini. Anche Giovanni e Augusto Giacometti avevano dipinto la stessa scena. Amandola.

Poi incontriamo una signora anziana di Stampa. Ci porta a vedere l'atelier che era stato di Giovanni e Alberto Giacometti, quando Alberto era ragazzo e quando tornava poi in Val Bregaglia da Parigi. Ci dice che ha conosciuto Alberto. "Era un uomo molto semplice, qui nessuno lo ha mai considerato una persona importante". Ci dice che sua nonna era cugina della mamma di Alberto. Ci racconta tante cose, non si vorrebbe mai uscire da questo atelier che è come un incanto. C'è ancora lo sgabello di Giacometti, con a terra, sul pavimento di legno, tutte le bruciature delle infinite sigarette spente. E attorno allo sgabello i segni per non spostarlo tra una seduta e l'altra davanti al modello. Ci sono, come graffiti a Lascaux, i suoi primi disegni fatti sul muro con una punta arroventata di ferro. Ci sono i due tavoli che Bice regalò a Giovanni Giacometti dopo la morte di Giovanni Segantini. Ci sono ancora tutti i pennelli di Alberto, la sua tavolozza, tutti i suoi ultimi tubetti di colore mai più utilizzati. Il suo cavalletto. C'è ancora tutto il suo spirito qui dentro, l'odore di sigarette, il rumore della tosse, il letto per dormire, il suo corpo affilato come uno dei suoi disegni. C'è tutto quello che vorresti sapere. Basta guardare bene. Basta sentire. E quando lo ascolti, il silenzio ti reca sempre qualcosa di inesplicabile. Ti porta la vita. Adesso quella di Alberto Giacometti, qui a Stampa, in Val Bregaglia.

[Alberto Giacometti, Paesaggio a Stampa, 1952 / Coira, Museo d'arte dei Grigioni © Alberto Giacometti Estate / by SIAE in Italy 2019]