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6 luglio 2019

Piccolo diario per Giacometti - 4

PICCOLO DIARIO PER GIACOMETTI - 4
di Marco Goldin

Oltre il grande vetro della stanza il temporale rotola verso la fine del Lago di Sils e poi si infila verso il Lago di Silvaplana e Saint-Moritz. Oltre il grande vetro si vede il verde profondo dei boschi che precipitano a valle e la luce grigia e azzurra della pioggia che il vento conduce dentro attorcigliate folate. Da qui si vede il mondo e mentre scrivo la pioggia batte ai vetri e si sta finalmente riparati dopo averci corso dentro per tornare in fretta dal sentiero lungo il lago. Da un'altra finestra si vede in alto il bianco del ghiacciaio del Forno, dove Alberto Giacometti in un'estate di tanti anni fa, era il 1935, andò a camminare assieme a Max Ernst, partendo proprio dal passo del Maloja. Dove adesso scrivo, dietro questa grande vetrata che mi tiene al centro di un simile universo.

Ma il resto del giorno è stato di un azzurro tonante, assoluto, è stato di sole e di un qualche vento che spostava in fretta il bianco delle nuvole. Volevamo percorrere le strade e i sentieri che Alberto Giacometti percorreva quando d'estate, da bambino e da ragazzo, veniva quassù da Stampa con la famiglia. Ma siamo a Maloja e qui si è definitivamente consacrato alla pittura Giovanni Segantini. Come fa chi prende i voti. Allora ricordando il suo ultimo giorno su questa terra, alla fine di settembre del 1899, alto, altissimo sullo Schafer, siamo andati al piccolo cimitero di Maloja, a trovarlo. E con lui la moglie Bice, alcuni dei suoi figli. Per arrivarci si cammina su un sentiero riparato che ha montagne su entrambi i lati e poi il lago più sotto. Ho pensato che a Giacometti non avrebbe dato dispiacere questa mia visita alla tomba, deviando appena dai suoi luoghi, dalle sue strade. Del resto Giovanni, suo padre, era stato molto amico di Segantini e anzi proprio Giovanni Giacometti aveva portato a termine il quadro a cui Segantini stava lavorando, "Le due madri". Si trova oggi al Museo d'arte dei Grigioni a Coira. E Giovanni Giacometti aveva disegnato Giovanni Segantini sul letto di morte, prima che lo esponessero nella Chiesa Bianca, proprio qui vicino.

Si passa sul sentiero, si fa silenzio perché niente altro si sente di dover fare se non silenzio. Passa un piccolo gruppo di turisti francesi e mentre fiancheggiano il muro basso del camposanto iniziano a cantare, piano, a più voci. Ho pensato che non ci sarebbe potuto essere invito migliore per aprire il basso cancello di ferro ed entrare nel cimitero di Maloja. La tomba di Giovanni e Bice Segantini sta proprio di fronte a chi entra, ed è piena di piante a terra, sassifraghe. Di fiori bianchi, rosa, un poco più rossi. E accanto piccole rocce, in una danza solenne e muta di bianco e colori. E sopra le tombe un grande pino mugo che fa ombra e la sua corteccia spande nell'aria il suo odore. E allora alzi la testa e da ogni parte viene il cielo azzurro, da ogni parte la neve dei ghiacciai in alto, quella che Segantini aveva dipinto. Da ogni parte ti volti e lo senti dire ancora, senti che queste montagne non le potrai mai guardare senza pensare ai suoi quadri, al suo dipingere nella neve e nel sole, come fanno gli animali che non si curano delle intemperie e vanno.

Molti abitanti della Val Bregaglia, il cui territorio si tende fino a metà del Lago di Sils, nell'alta Engadina, erano costretti a salire dal fondovalle a Maloja per trovare spazi adeguati per il pascolo del bestiame, così che questa piana in alto che si allarga tra i picchi dei tremila e più metri, diventava la loro residenza estiva. Il papà e la mamma di Alberto Giacometti ereditarono da uno zio del padre di Annetta una casa a Capolago, sul confine settentrionale del lago di Sils. In questa casa, che esiste ancora oggi, bianca e secca nella sua estensione verso l'alto come una casa di Morandi a Grizzana, Giovanni Giacometti e Annetta sua moglie portarono per tanti anni tutta la famiglia in estate. Giovanni lavorava all'ultimo piano, in un vasto atelier che Alberto ricorda vuoto e quasi a risuonare in un'eco. Da una grande finestra che aveva il lago appena a sinistra, Giovanni poteva dipingere, avendoli davanti, il ghiacciaio del monte Forno, il Piz Corvatsch e le altre vette attorno. O il piccolo abitato di Isola sull'altra sponda, magari in un giorno di pioggia. Oppure Giovanni si fa seguire dai bambini fino a Cavloccio, nei dintorni, dove ha un capanno nel quale raccoglie le sue tele. Ce la immaginiamo questa processione colorata nei giorni di sole, papà e bambini che gli portano quadri, tavolozze e pennelli. E parlano di pittura e fienagioni e animali al pascolo. E dei clienti facoltosi del Maloja Palace Hotel, per i quali Alberto e Diego, come altri ragazzini della valle, fanno i caddies al campo da golf.

Quella valle, quel lago, tanto amati anche da Frederich Nietzsche, che vi trascorse molto tempo nel penultimo decennio del XIX secolo. Nel suo "Ecce Homo" di quella zona scrisse: "Trasparente, accesa nei colori, racchiudeva in sé tutti gli opposti, tutti i gradi intermedi tra il ghiaccio e il Sud". Bisogna venire fin quassù, ai quasi duemila metri del passo del Maloja, e poi salire ancora più in alto sui sentieri e lungo le valli sotto i picchi che Alberto Giacometti percorreva molto spesso con Diego e la cugina Bianca, per capire. Per capire bene cosa sia questa luce, questo senso di percezione protratta e infinita, che consegna all'occhio una visione, lascia che nello sguardo entrino particelle di luce più pura che poi si diffonde e distende nei colori del prisma. È come se il mondo qui ti si consegnasse prima che altrove e che tutto questo non potesse restare imprigionato nel solo sguardo del pittore.

Alberto Giacometti è venuto quassù per molte estati, anche dopo la sua età giovanile. Ci è venuto per assaporare ancora questa luce, per camminare, per guardare i picchi vertiginosi, le rocce e le pietre su cui ha costruito il suo mondo di artista. Domani ne parlerò, nell'ultima puntata di questo mio diario dedicato a Giacometti. Ma intanto oggi, nella zona di Pila, alta sul passo del Maloja, sotto il Piz Longhin, abbiamo incontrato, in mezzo a una piana dove precipitava una grande cascata che si raccoglieva infine in un piccolo torrente di acqua mai vista così chiara, una casa ormai priva di vita. Venne qui, diventato ormai famoso, Alberto Giacometti a parlare con il figlio del macellaio, che aveva voluto ingrandire l'attività del padre, ma che ne aveva ricavato debiti e non sapeva più come fare. Alberto lo venne a sapere, camminò fino a questa casa tra il cielo e la cascata, tra gli animali e i fiori. Quanti rododendri rosa tra i pini mughi. Venne per offrire il suo aiuto, disinteressato. Il macellaio ascoltava in silenzio, Giacometti parlava. Parlava in mezzo a questi boschi, sotto il Piz Longhin, affilato. E a Parigi le sue sculture erano fili che si alzavano verso il cielo. Non aveva camminato invano tra queste montagne.



[Giovanni Giacometti, Giorno di pioggia a Capolago, 1907 / Coira, Museo d'arte dei Grigioni]