Canto con variazioni

Villa Manin, Passariano di Codroipo (UD)

11 ottobre 2025 - 12 aprile 2026

La mostra

Introduzione

Confini da Gauguin a Hopper. Canto con variazioni è un’esposizione molto vasta, distribuita in sedici sale su due piani. Una vera impresa anche organizzativa costata due anni e mezzo di lavoro, con 130 opere – molte tra esse veramente famose – provenienti da 42 musei, sia europei sia americani. 
I confini in pittura vengono raccontati attraverso i due secoli – il XIX e il XX – che più di sempre ne hanno costituito l’espressione artistica, fin dal fondamentale tempo romantico di Caspar David Friedrich e William Turner, i due pilastri nella creazione di confini che fossero insieme dello spazio fisico e della mente. 
La mostra non è stata però costruita come una semplice successione cronologica, da inizio Ottocento a fine Novecento, e invece si sviluppa in varie aree tematiche, per un meraviglioso viaggio in compagnia dei capolavori senza tempo della pittura.
Se da un’unica parola, confine, viene il principio, questo progetto ha cominciato a nascere, e quindi a prendere vita nel pensiero del curatore, Marco Goldin, dal De rerum natura di Lucrezio, quando poeticamente egli indugia tra il confine e l’infinito, legando, nella forza del pensiero, l’uomo all’universo. Esattamente quello che questa mostra intende fare.
È appunto l’idea del confine infinito, dello spazio infinito. Un confine spostato sempre più in là, fino al suo annullamento. Il confine diventa così l’universo.
E ciò non accade soltanto nella tensione che sempre ha portato l’uomo verso le dimensioni del naturale come il cielo, la montagna che è terra che emerge, e il mare, o quella di un apparentemente esotico altrove, ma anche nell’immensa dilatazione che dagli occhi si inabissa nel creato interiore. 
Ecco perché questa mostra si sofferma, in un suo punto, proprio quello del principio, nell’esposizione di sguardi e volti, alla ricerca di quel confine che non si distende nello spazio della natura ma alberga nel “risvolto interno degli occhi”, per usare le parole di Edvard Munch. È lì che si fissa uno dei punti più toccanti e struggenti della storia dei confini dipinti.

Sala 1

La prima sala della mostra riassume i vari temi in cui si articola il percorso, con la sola eccezione dei volti dipinti e delle figure poste su un confine, che tutti si trovano nelle varie sale successive a questa.
Anselm Kiefer rappresenta, nella più stretta contemporaneità, il rapporto continuo tra opposizioni, tra cui quelle fondamentali tra luce e buio e tra cielo e terra, dando luogo a quella linea dell’orizzonte che si sporge verso un confine ignoto. Mentre Mark Rothko accenna a un diverso orizzonte, una notte quasi impercettibile che intercetta, sprofondando, il confine imprendibile dell’interiorità.
Gustave Courbet e Claude Monet raccontano nei loro quadri la vastità tra mare e cielo, quel confine che, denso di materia o svaporante, è la prova di uno sguardo lanciato verso l’infinito, con una nuova idea del tempo che Monet porterà a perfezione. Mentre Paul Cezanne annuncia qui quell’altrove, in questo caso la Provenza, che è confine lontano dalle città. Un confine che poi Gauguin sposterà molto più in là.

Sala 2

I confini possono essere anche quelli, vastissimi e così articolati, della propria interiorità, per cui importanti sono in questa mostra gli autoritratti. Ma i confini sono anche quelli di un volto che rappresenta l’istinto quotidiano delle brevi misure.
Nel primo caso, gli autoritratti da Van Gogh a Gauguin e oltre, nel secondo caso i volti, e gli sguardi, da Degas a Manet.
I numerosi autoritratti realizzati da Munch tracciano un interno del pensiero che diventa confine, per dire di quella vastità che in lui gareggia con le immense latitudini del Nord.
Vincent van Gogh è il pittore che, assieme a Rembrandt, più di ogni altro ha cercato nel proprio volto il confine assoluto ed estremo, nei suoi 35 autoritratti che oggi conosciamo, mentre tanti altri certamente li ha cancellati. Sono stati in gran parte dipinti – come quello in questa sala che giunge in Europa per la seconda volta soltanto – nei due anni trascorsi a Parigi, e soprattutto nel 1887.
D’altro canto, il confine interiore si rovescia anche dentro un’aura quotidiana, ammantata di silenzio, lì dove si incontra la domesticità del volto, anche quando a dipingerlo è uno strenuo realista come Courbet.

Sala 3

Nel pieno Novecento ci sono due artisti che sono spesso stati accostati nei percorsi museali. I loro nomi – Alberto Giacometti e Francis Bacon – sono sinonimo immediato di quella tensione che fa del volto bruciato e tumefatto, quasi arroventato per le forze sotterranee che vi scorrono, il segno più visibile del confine interiore nell’uomo moderno.
Per questo motivo questa sala è a loro dedicata, sala in cui compare anche, quasi come cerniera tra l’Ottocento e il Novecento, il volto di donna dipinto da Amedeo Modigliani nell’ultima fase della sua vita così accidentata. Sono occhi isolati in un loro mondo distante.
Ha lasciato scritto il pittore: “Con uno guardi il mondo e con l’altro guardi dentro di te.” Proprio il senso del confine interiore che questa mostra vuole raccontare.

Sala 4

Il diventare parte della natura che si ammira è l’idea che sopra ogni altra ha coinvolto tutti i grandi pittori americani del XIX secolo, ma anche di alcuni, grandissimi, di quello successivo, ed è il motivo da cui muove questa nuova sezione della mostra. Natura che investe, insieme, il corpo e l’anima, intimamente fondendoli.
Il viaggio in questa natura eterna e primordiale ha generato la bellezza di una pittura che in Europa non è ancora largamente conosciuta, e per questo si lascia scoprire in una sua dimensione di innocenza, sempre legata alla presenza del divino dentro ciò che è rimasto il giardino dell’Eden.
Sono gli anni meravigliosi della Hudson River School, la scuola del realismo americano a metà dell’Ottocento, con i diversi artisti che ne hanno rappresentato i diversi sentimenti e le diverse istanze, tra cui quelli compresi in questa sala.

Sala 5

In questa sala il rapporto tra figure e spazi immensi della natura, nella pittura americana, trova il suo acme con alcuni artisti straordinari del XX secolo. Le figure stesse si fanno quasi cippo di confine, punto in cui il confine medesimo si fissa prima di dilagare nell’immenso.
Winslow Homer è il più straordinario pittore di nature e figure che l’America possieda tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, e il quadro in questa sala lo dimostra perfettamente, lì dove lo spazio è ugualmente l’eternità e un pomeriggio in America davanti all’oceano. Questo rapporto tra intimità della figura e infinito dello spazio è lo stesso evocato da Hopper alcuni decenni dopo, per un viaggio nell’interiorità che ha pochi eguali.
Sarà poi il presentarsi di due pittori come Richard Diebenkorn e Andrew Wyeth. Il primo, affascinato da Matisse e Bonnard, elegge la finestra a luogo da cui sporgersi, o guardare, il confine dello spazio. Il secondo rappresenta forse meglio di ogni altro in America il cercatore di confini tra il giardino e l’illimite dello spazio, esattamente il senso di questa mostra.

Sala 6

In Europa è Matisse a lavorare sul tema della finestra, colui che sposta all’interno della stanza il confine del mar Mediterraneo a Nizza. Arnold Böcklin si era mosso invece sul terreno di un’arte di tipo idealista, caratteristica tipica delle nazioni di lingua tedesca nell’ultimo quarto dell’Ottocento, per una solenne sospensione che si confronta con la peribilità della vicenda umana. Giovanni Segantini colloca le sue figure sotto alle alte montagne svizzere, nel momento del suo trasferimento nei Grigioni. Un confine insieme quotidiano e immisurabile, nel calore di un abbraccio materno.
Nella seconda parte della sala si trova un’area monografica dedicata a Paul Gauguin. Ciò che vi è compreso, con i quattro quadri famosi, è forse il senso più immediato di cosa significhi la parola confine, volta poi al plurale. Gauguin, il pittore che più di ogni altro ha cercato il suo limite andando sempre più lontano, sempre più legandosi a un’idea di un mondo che non lo rappresentava e dunque cercando ogni giorno uno spazio alternativo, per dar voce a sogni e colori.
Dapprima è stata la Martinica, dove ha trascorso alcuni mesi nella seconda parte del 1887, giungendo da Panama. Poi la Bretagna è diventata la regione di un altrove quasi domestico, eppure lontano dai veleni parigini. Infine, i due soggiorni tahitiani che hanno sancito, tra 1891 e 1893 e poi tra 1895 e 1901, la nascita di quel confine esotico che pur tuttavia alla fine deluderà il pittore.

Sala 7

Gauguin è andato lontano per incontrare il suo confine ma molti altri pittori hanno eletto una terra, e una costa, assai più vicine a Parigi, a loro luogo di fuga, a confine in cui la gioia del colore era piena. In questo senso la Provenza e la costa del Mediterraneo sono state fragranza e profumo, l’idea di una Tahiti nella prossimità di un confine che si poteva toccare.
La costa del Mediterraneo, dunque. E il suo immediato entroterra provenzale. Luoghi nei quali si celebra la gloria del nuovo paesaggio francese. Nell’arco di poche decine di chilometri si trovano a lavorare, nella prima parte del 1888 addirittura in modo contemporaneo, artisti straordinari come Claude Monet, Paul Cezanne e Vincent van Gogh. Tra Antibes, Aix-en-Provence e Arles. A loro seguirà Pierre Bonnard nella prima parte del Novecento, nella zona di Le Cannet.
C’è poi un fatto fuori dall’ordinario, quando la ricerca dei confini non porta gli artisti verso la dimensione del lontano, ma sono quei confini a farsi prossimità, vicinanza, confidenza d’immagini altrimenti distanti. I grandi pittori francesi scoprono negli artisti giapponesi dell’ukiyo-e, da Utamaro a Hokusai a Hiroshige, una chiarità e una intensità della luce che poi trovano appunto in Provenza e lungo la costa del Mediterraneo. Ma fondamentale fu, attraverso il senso del grafismo sempre di derivazione giapponese, la ricerca dell’essenziale attraverso una forte semplificazione.

Sala 8

Se parliamo di confini naturali, il secolo che più di ogni altro ne ha rappresentato le sembianze è stato il XIX. Proprio per questo motivo, in questa mostra, adesso che è venuto il momento di raccontarli e descriverli, gli artisti dell’Ottocento stanno in primo piano. Assieme ad alcuni altri del XX secolo che ne hanno raccolto il testimone nella maniera più commovente.
L’Ottocento è dunque il secolo della natura. Il tempo in cui l’uomo sempre di più si pone in relazione con lo spazio meraviglioso fatto di cieli e boschi, mari e montagne, sentieri e laghi, campi e giardini, venti e stelle. Il tempo in cui gli artisti, seguendo questo filo che li lega al paesaggio, dipingono in modo costante un nuovo rapporto con il mondo.
La dimensione dell’indefinito romantico Caspar David Friedrich la indica in modo sublime nelle sue visioni di montagne, mentre altri pittori della Hudson River School americana partono dal suo esempio per mescolare romanticismo e realismo, sia sulle montagne dell’Est sia su quelle dell’Ovest. Ma è chiaro come la montagna sacra dell’intera storia dell’arte sia la Sainte-Victoire di Cezanne, da lui dipinta decine di volte fino al 1906, l’anno della sua morte. Superficie piatta che non accenna a una profondità di prospettiva, rifiutando le tradizionali convenzioni.

Sale 9 e 10

In questa sala, e in quella più piccola successiva che si anticipa, un senso di meraviglia e di stupore ci prende, dentro la luce calda di tramonti sul mare. Dalla visione romantica di Turner al realismo di Courbet fino ai mari ormai poco impressionisti di Monet negli anni ottanta in Normandia. Per poi andare alle derivazioni novecentesche di Bonnard, Nolde e De Staël. Nella sequenza degli elementi naturali che segnano nello spazio il senso del confine, il mare ha una rilevanza perfino maggiore della montagna, e prima del cielo che tutto in sé pare comprendere. Il tema del mare ha affascinato Turner nel suo dilavato disperdersi, così come Courbet, il principale esponente della pittura di realtà in Europa attorno alla metà del XIX secolo. Lo si vede nel quadro in questa stanza e nei due in quella successiva, tutti legati al rapporto tra la storia dell’uomo e l’eterno.
Se Monet con i mari dipinti in Normandia rompe definitivamente la religione del puro plein air, Bonnard, Nolde e soprattutto De Staël partono dal dato della visione ottica per lasciare che quella stessa visione sprofondi, modificandosi, nei territori dell’interiorità. Il colore, dal giallo di Bonnard all’arancione di De Staël, diventa un vero e proprio fatto dello spirito.

Sala 11

In questa sala, con due quadri di Turner e uno di Church, si chiude la sezione dedicata al confine del mare e si apre quella conclusiva, molto ampia, dedicata ai confini del cielo, spazio che tutto abbraccia come in una cosmogonia. Molti quadri di Turner mostrano una precisa presa di coscienza circa la possibilità di raccontare anche la Storia attraverso la supremazia delle luci. Egli non dipinge quadri di naufragi e tempeste come avevano fatto molti pittori del Settecento, ma instaura un vero e proprio corpo a corpo con gli elementi. Da lui trarrà anche Church il senso luminoso di un naufragio già avvenuto.
La seconda parte della sala apre lo straordinario capitolo finale della mostra, quello dedicato al cielo come segno del più vasto confine. E lo fa ripartendo dal tempo romantico, con le opere di Friedrich e Constable. Il cielo in Friedrich diventa il tutto, è l’espressione del sacro, il luogo nel quale abita il divino, spesso con il segno della luna a dominare. Nei suoi cieli dipinti si attua l’incontro tra la luce, il colore, la materia e lo spirito.
John Constable inventò un altro romanticismo, lontano anche dal suo connazionale Turner. Quello della breve misura quotidiana, quando il cielo nasce dalla variabilità delle luci, come nella serie dipinta tra il 1821 e il 1822. Opere che sono insieme una nota profondamente poetica e la descrizione di precise condizioni atmosferiche.

Sala 12

Era sulle spiagge attorno a Honfleur, la sua città natale, che Eugène Boudin aveva cominciato a camminare, da solo, alzandosi anche prestissimo al mattino per cogliere il movimento delle nuvole e trasferirlo sulle sue piccole carte. Il cielo come confine così diverso dall’eroismo romantico e invece il cielo come confine quotidiano, che poi gli impressionisti porteranno a perfezione.
Proprio a Honfleur, Baudelaire scoprì il lavoro di Boudin: “Ho visto recentemente nello studio di Boudin alcune centinaia di studi a pastello realizzati davanti al mare e al cielo”. Corot l’aveva definito il “re dei cieli” e Alexandre Dumas figlio, rivolgendosi al pittore, gli aveva detto: “Voi siete l’uomo dei cieli per eccellenza.”
Boudin mette in atto quella piccola rivoluzione domestica che, come era accaduto a Turner e soprattutto a Constable, gli fa considerare per il suo lavoro solo lo spazio del cielo. Che a quel punto diventa il centro di un vedere che associa le brevi misure del luogo della propria nascita a quelle, vaste, del cielo cosparso di nuvole. Come una pioggia di nembi dei colori diversi tra l’alba e il tramonto.

Sala 13

Fu nelle campagne appena fuori Parigi, a ovest della città, che si formò il nuovo gusto per il paesaggio impressionista. Erano campagne lungo il corso della Senna, da Louveciennes a Bougival, prima che Argenteuil, dal 1872, diventasse con Monet il vero centro di quel tipo di pittura.
Si trattava di luoghi pieni di un brio, una luce, che sembravano perfetti per i giovani pittori moderni, che non cercavano più la solitudine eroica delle foreste, e volevano invece il contatto con il brusio di una natura diversa, appunto quotidiana. Villaggi che conservavano una forte caratteristica rurale, avevano sopra essi vasti cieli liberi che erano la conseguenza di quelli di Boudin, con accanto le acque del grande fiume che scorreva. Era il dipingere il senso di una giornata in campagna, o lungo il corso della Senna e dei suoi affluenti.
Alla fine dell’estate del 1878 Monet lascia Argenteuil e in un momento di stringenti difficoltà economiche decide di trasferirsi e sale verso nord, sempre lungo il corso del fiume, a Vétheuil. Il quadro in questa sala è un perfetto saggio impressionista su cosa sia dipingere un cielo tutto sparso di nuvole in movimento e che si specchiano sull’acqua, riflettendo. Un confine quotidiano.

Sala 14

Dal suo punto di sosta, variato nello spazio e nell’anima, nell’interesse per le soglie dipinte da Matisse, Mark Rothko lascia che il transito verso il confine interiore sia nella sua pittura un fatto privo di immagini sensibili. La derivazione francese della sua ricerca, quella lastra di forte sensualità di superficie che gli sorge dall’aver guardato, e amato, la pelle di tanti tra i pittori compresi con lui in questa mostra – dal tardo Monet affaccendato a Giverny, al morbido e articolato fiorire del colore di Bonnard, fino appunto a Matisse – talvolta contrasta con l’elemento di sacralità e ascetismo che gli è intimamente connaturato. Quel sacro che conduce quasi, come in Hopper e come in Wyeth per restare in America, alla verità soprannaturale, all’eternità.
Evocare è una parola che si presta bene a spiegare i quadri che Rothko viene realizzando a partire dagli iniziali anni cinquanta, prima che nel decennio successivo, e ultimo per il suo operare, egli virasse, pur con le dovute eccezioni come nel dipinto in questa sala, verso un occultamento della luce e del colore. A costruire una notte, come nella sua tela incontrata nella prima sala. Quasi il viaggio dentro i confini della psiche stesse raggiungendo il suo punto più profondo, quasi di non ritorno.

Mark Rothko, No. 22 (senza titolo), 1961
Buffalo AKG Art Museum, dono della Mark Rothko Foundation
© 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / ARS, New York

Sala 15

Negli anni ottanta e novanta dell’Ottocento, a partire dalla campagna di pittura in Normandia del 1882, i cieli di Monet sempre di più cambiano, non più sottoposti al potere assoluto del plein air. Soprattutto il secondo tra questi due decenni segna un punto straordinariamente nuovo nella su arte, con l’inizio delle cosiddette “serie”, tra le quali quella legata alle ninfee è la principale e la più nota. Le vedute di Londra, in seguito ai soggiorni tra 1899 e 1901, sono un intermezzo negli anni in cui si fanno numerosi lavori di adeguamento nel giardino attorno alla casa a Giverny.
Perché le ninfee di Monet entrano in questa esposizione che ha per tema il confine? Perché, nello stesso modo, vi entra un giardino? Finora sono apparsi i grandi confini naturali, le categorie romantiche dello spazio, montagne, mari e cieli. Eppure ora un giardino si offre nei suoi brevi confini, e sembrerebbe negare quegli spazi che si tendono infiniti. Spazi che anche Monet ha coltivato molte volte fino al momento di chiudersi a Giverny e fare di quel giardino un mondo, farne la somma di tutti i viaggi, di tutti i confini che aveva attraversato e dai quali era ritornato.
Il giardino appare come la conclusione del viaggio, il luogo in cui si raccolgono tutte le esperienze e si rivede la vita nella sua distensione immensa, carica di ricordi e presagi. Il giardino non è più dunque solo uno spazio fisico, non è mappa né topografia, ma molto di più è la somma incantata di passato, presente e futuro.

Sala 16

L’ultima sala della mostra esplora, attraverso l’opera di cinque straordinari artisti che lavorano quasi per intero nel Novecento, la diversa intonazione dei cieli dipinti in luoghi anche molto lontani tra loro, con esiti sempre di profonda e intima commozione davanti allo spazio immenso che trattiene dentro di sé i confini. Cinque pittori che rappresentano il senso più profondo di questo viaggio che volge alla sua conclusione.
L’atmosfera appena nebbiosa delle notti d’estate norvegesi, con il bianco velo della luna, pare essere tra le preferite in assoluto da Munch. Notte che tutta si specchia, con il suo cielo trapunto di stelle, nel fiordo di Oslo. Oppure le paludi e i canali di Mondrian, su cui si depositano gli striati cieli olandesi che ricordano il primo Van Gogh.
O il cielo sopra Parigi di Nicolas de Staël, il confine entro cui adagiarsi, preso dalla parte dell’anima, potendo così egli mescolare il dato del figurare con quello dell’astrarre. O i cieli di Emil Nolde, colmi di nuvole mosse dal vento sopra le ampie pianure dei Frisoni settentrionali, prima che quei papaveri rossi inscritti diano il senso di una resistenza poetica durante il drammatico conflitto mondiale.
E infine giungono, davvero alla fine del viaggio, altri due quadri di Edward Hopper. Un pittore che fa dei suoi cieli in America un confine tutto dilatato verso l’immenso. Egli ha lasciato nel mondo del paesaggio sospeso, vuoto di presenze, un segno non facilmente dimenticabile. In lui, tutta la somma dei confini di questa mostra.

I confini del presente

La mostra Confini da Gauguin a Hopper ha una sua parte finale che riguarda, in questi spazi, alcuni artisti italiani che fin dalla metà del Novecento hanno lavorato su temi affini a quelli dei pittori che compongono la grande rassegna internazionale. Ne ho scelti alcuni, avrebbero potuti essere certamente di più. Alcuni che si fossero confrontati, nel corso delle loro vite – concluse o no – con gli stessi temi che i pittori, da Turner a Rothko, da Van Gogh a Hopper, hanno affidato alle loro tele quando si era trattato di dipingere i confini.

Dunque per questo le loro opere sono collocate in un punto che è ugualmente la fine e il principio del viaggio, e tu non sai se l’incontro avvenga nel momento in cui ci si stacca da terra o invece quando si faccia ritorno al porto. Perché la cosa importante è incontrarli, questi pittori, sentire la pienezza del loro essere davanti al colore che rappresenta il mondo, qualunque sia il modo della rappresentazione.

Partendo dall’omaggio a Giuseppe Zigaina, grande friulano, a dieci anni dalla morte, con i suoi strabilianti cieli abitati. Poi gli autoritratti di Gianfranco Ferroni vicini a Giacometti soprattutto e a Bacon, così come accade per le figure dipinte da Alessandro Papetti. Quindi quella eco matissiana nelle finestre solitarie di Alberto Gianquinto e Franco Polizzi, accanto alle soglie abitate di Matteo Massagrande.

Ma anche il profumato riferimento ai gialli di Bonnard in Vincenzo Nucci, così come la fascinosa poesia quasi giapponese in Andrea Gotti. Quindi la spiaggia di Piero Guccione, inaspettatamente vicina a quella di Turner, oppure i quadri arancioni di Claudio Verna nella prossimità con lo stesso colore in De Staël. O ancora, la flagrante sovrapposizione dei fiori schiacciati e luminosi di Franco Sarnari con le ninfee e gli iris di Monet, mentre all’interno di un giardino malinconico avanza l’opera muschiosa di Piero Vignozzi.

E poi ancora cieli, come quelli grondanti nuvole di Franco Dugo, accanto a Constable e Courbet, o quelli ammantati di stelle di Giuseppe Puglisi, quelle stelle che Munch ha dipinto alle latitudini del Nord. O infine, quelli abitati da placche di nuvole arancioni di Piero Zuccaro, al pari di quelli olandesi di Mondrian, prima che tutto venga sigillato dallo svaporio atmosferico delle immagini create da Claudio Olivieri, che come Rothko unisce prossimità e lontananza.

Combined Shape

Esedra di Levante – Villa Manin
Passariano di Codroipo (UD)

Combined Shape

Da martedì a domenica: 9:30 – 18:00
Chiuso il lunedì

Combined Shape

Intero € 15
Ridotto € 11

La nostra newsletter

Iscriviti e sarai sempre aggiornato!

La nostra newsletter

Iscriviti e sarai sempre aggiornato!